"Dai rema!"
"Ma son stanca..." "Dai cicci, che ci manca poco. Siamo quasi arrivati." Le nostre estati si misuravano in "quasi arrivati" e forse è per questo che non finivano mai. Sapevano di liquirizia e finocchio selvatico. Avevano il colore delle isole dalmate: blu, grigio e verde. Cantavano di bandiere bianche che sventolavano sui ponti, di gente che respirava piano per non far rumore e di tipi belli e impossibili. Il furgone di papá e mamma sollevava un gran polverone che si ficcava in gola, perchè a noi ci piaceva correre con i finestrini spalancati e con l'aria che seccava le gengive. C'avevamo certi sorrisi giganti e capelli cosí fini - tutti e due ma io di più - da disintegrarsi sotto il sole. Il sale rimaneva a seccare sulle nostre pelli per giorni e pizzicava in posti dove solo un fratello o un padre o una madre o una sorella potevano arrivare a darti una grattatina. Quello era un angolo di mondo riservato a pochi. La sera i grilli, di giorno le cicale. All'alba gli scoiattoli che rubavano la frutta in campeggio e di notte i barbagianni. "Ma poi come facciamo a tornare indietro?" "Dai rema! Dai che ci siamo!" Per andare sugli scogli ci mettevamo certi sandaletti in plastica trasparente che si allacciavano alla caviglia e che avevano lo stesso colore dei ghiaccioli: gusto-menta, gusto-arancia, gusto-limone. Avevo il piede magro e dovevano sempre fare un buco in più nella linguetta, per allacciarli bene. Mi facevano male e il piede scivolava fuori lo stesso ma non me ne importava assolutamente niente. Il tatuaggio dei sandaletti che il sole lasciava sui piedi mi rimaneva a volte fino a Gennaio o a Febbraio. A me piaceva il tatuaggio di sole. Le spine dei ricci erano il pericolo piú gettonato dell'estate. I ricci sono degli esseri viventi davvero eccezionali. Passavo delle mezzorate a guardarli camminare. Mio fratello li pescava con un retino e li lanciava sugli scogli. Io mi facevo granchietta, li andavo a recuperare e li mettevo dentro un secchio verde pieno d'acqua di mare. Poi aspettavo sempre lí ferma, a forma di granchietta. Quando sullo scoglio ne volava uno con le spine violacee e le punte bianche lo prendevo e me lo mettevo sulla pancia o sul palmo della mano e poi aspettavo ancora. Allora iniziavano a camminare, i ricci e mi facevano un solletico lento, passeggiavano sulla linea della mia vita, dell'amore e della fortuna. Ogni tanto sullo scoglio volavano orecchie di Sanpietro e scheletri di ricci che continuarono per lungo tempo ad essere gli scheletri piú belli che avessi mai visto. "Forza cicci, forza!" "Basta..." "Dai guarda...la vedi quella roccia?" "No." "Dai! Quella a forma di delfino, la vedi?" "No. No, non la vedo. Son stanca. Torniamo indietro?" I miei cugini si tuffavano da rocce cosí alte che mia zia diceva solo "Non voglio guardare". Si tuffavano con le scarpe da ginnastica per non farsi male ai piedi. Quella era la loro specialitá. Far spaventare zia e tuffarsi, in parti uguali. La mia specialitá invece (oltre a frignare, come mi dicevano sempre) era togliere le spine di riccio dalle mani degli altri. Ero talmente brava che l'unica spina che non si è mai piú tolta da una mano è proprio la mia. Sta qui con me conficcata alla radice del mignolo della mano destra dal 1982. Capace che se si conficcava nella sinistra sarei riuscita a togliermela da sola, tanto ero brava. E invece niente. Avevamo provato proprio tutti i metodi possibili ed immaginabili per estrarla ma alla fine mio papá aveva sentenziato il suo Amen e dato che lui era medico e il suo Amen valeva piú di qualsiasi altro Amen, ho un pezzettino di mare incastrato ben sotto la pelle da prima ancora che scoppiasse la guerra. Me la porterò nella tomba questa scheggia di riccio. "Ma quanto manca?" "Siamo quasi arrivati, cicci, dái. La vedi quella roccia a forma di scatraolpiteco, la vedi? ..." "..." "Eh?" "Scatralo che?" A forza di sganasciate riuscivamo a fare qualsiasi cosa io e mio fratello. Stavamo cercando di raggiungere la spiaggetta dei cavalli in kayak remando controcorrente. Erano giorni che li guardavamo, quei cavalli ma sapevamo che sarebbe stata un'impresa difficile. Con il binocolo rimanevamo ore appostati a pancia in sotto, sulle rocce bollenti, per spiarli quei cavalli misteriosi e calcolare la direzione del vento. E loro spiavano noi e il vento non cambiava mai. Quindi, Amen. Una mattina abbiamo messo in acqua il doppio (kayak a due posti) e siamo partiti. "Tira, forza, tira dai!" Qualsiasi cosa da fare a quell'epoca era dura, faticosa e difficile. Era pesante. Pesava chili e chili. Il binocolo per esempio. Sará pesato almeno mille chili. Trascinare il kayak sulla sabbia era stra stra stra pesante, pagaiare era enormemente pesante, una fatica mostruosa perchè le pagaie erano doppie e di legno e poi quando le infilavi dentro l'acqua e davi l'altra remata t'arrivavano certe gocce gelate che dalla mano scendevano correndo lungo il braccio, dritte sull'incavo della ascella e fino all'ombelico. Se era mezzogiorno non c'erano problemi, ma quando si pescava di notte odiavo quelle gocce malefiche e congelate. Tenere in mano la canna da pesca, di notte e con il freddo, era una fatica irraccontabile. Girare il mulinello e tenere in mano la canna da pesca, non ne parliamo. Se poi avevi avuto la fortuna di prendere un pesce gigante figuriamoci: dovevi tenere in mano la canna da pesca, girare il mulinello e tiare fuori il pesce dall'acqua. Queste erano le fatiche d'estate. Quelle d'inverno, non ne parliamo proprio. "Eccoli, li vedi?" "No..." "Li in fondo, vedi? C'è quello marrone con la macchia bianca. Fai piano... Shht..." Ma la sterpaglia mi punge ovunque perchè siamo alte uguali io e lei. "Torniamo?" "Guarda! Guarda!" "Cosa? Dove?" Con la sorpresa e un solo verbo (Guarda! Guarda!) abbiamo esplorato mezzo mondo, noi due. Sopra e sotto l'acqua, per aria, sulle pareti di una tenda immersa nella notte e illuminata solo da una pila mezzo scassata. "Lo vedi?" allora appiccicava la sua guancia bollente alla mia e indicava con il braccio teso la direzione da guardare. I nostri peletti sulle braccia si facevano cosí biondi d'estate. Sembravamo due pannocchie spelacchiate. "Lí in fondo, vedi?" Era un cavallo in mezzo agli altri. Ci aveva visto a noi due cuccioli d'uomo, con i nostri costumini sdruciti attaccati addosso, avanzare come camaleonti smemorati, facendo un rumore dell'ostia. E mentre tutti gli altri cavalli se ne stavano scappando via facendo tremare la sabbia sotto i nostri sandaletti, quell'unico è rimasto a guardarci per un tempo tanto tanto lungo quanto un "quasi arrivati". Era una femmina. "E' una femmina, hai visto?" "No." "Si, è una femmina. E' bella, vero?" Sí, bella. Come le nostre estati. Senza briglie, spettinate. Infinite.
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January 2015
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