Cara mia,
io e te ci siamo incrociate da vicino tre volte. La prima io avevo una mano intera di anni. Ero con padre e madre a fare spese in un paesino di poche anime e molta campagna. Era autunno. Ad un certo punto qualcuno ha chiesto se tra di noi ci fosse un medico e io ho visto padre che alzava la mano facendosi largo tra le persone e poi l'ho visto sparire per un tempo che nemmeno ora non saprei contare. Io guardavo i bordi cuciti delle gonne, le calze color carne e i peli che ne uscivano e le scarpe nere degli uomini, l'odore di sigarette. E guardavo i lacci sciolti delle mie scarpe e ripassavo a memoria il modo di asolarle. La mano di madre allacciata alla mia, le sue unghie perfettamente rotonde e sempre corte al punto giusto, la coda bianca di un cane nero seduto ad aspettare come me. S'era fatto tutto un silenzio color seppia in quel negozio. Quando padre tornó disse che tu eri arrivata, cara mia, e che non c'era stato niente da fare. Madre slacciava la sua mano dalla mia per portarsela alla bocca, io vedevo il mento pieno di barba di padre, e quello sottile di madre e poi altri menti che s'affacciavano nei dintorni di padre. E tu, cara mia, eri maestosamente entrata così, in quel negozio, in quel paesino di campagna. Avevi preso posto senza invito e m'avevi insegnato che 1) padre, nonostante tutto, continuava ad essere un supereroe 2) se qualcuno fa la tua conoscenza, piange. La seconda volta che t'ho vista è stato in faccia. Il cielo era carico e nero e ho pensato che era ora di perderla, Laura, di lasciarla andare via. Era ora che venissi a conoscerla perché vederla stare in braccio a Sofferenza per tanto tempo era ancor più terribile che vederla sopravvivere. E' tutto un "sí", quando muore un familiare, perché la vita ha già detto il suo grande "no". La pelle non bianca, gli occhi incavati. Le labbra secche e strette, semiaperte e quell'idea di vita che cercavo e non trovavo in nessuna delle linee del suo volto. La guardavo, aspettando che si svegliasse per dirmi che era tutto uno scherzo. Che stava bene. Che il suo corpo aveva vinto il cancro e che tornavamo a giocare sulla collina. Come nei cartoni animati che guardavamo insieme la domenica, io ciucciandomi il dito. La terza volta che t'ho vista, mia cara, sei entrata dritta a casa mia e ad aprire la porta è stata una signora che si chiama Maria. Una donna piccolina di statura, stracolma di grazia e amorevole compassione. Porta con sé una specie di borsetta tintinnante piena di liquidi mortali e siringhe. È in casa nostra perché padre deve morire e abbiamo deciso di farti arrivare il prima possibile. Non arrivo all'incontro tra te e padre. Sono in macchina. Giro per la città con la musica a tutto volume. É il primo giorno di primavera e la radio canta Mare mare mare voglio annegare/Portami lontano a naufragare/Via via via da queste sponde/Portami lontano sulle onde. Ed è come non è, c'è spesso qualcosa di romantico al quale ci aggrappiamo quando arrivi e io mi sono aggrappata a questa canzone come il segno d'un saluto. Padre muore, io arrivo a casa, non assisto al suo ultimo respiro. Attorno a lui ci sono tutti i suoi amici. Siamo tutti tornati a casa. Siamo tutti vicino a lui. Il fuoco è ancora acceso. I fiori tra poco esploderanno, le api inizieranno a fare il loro mestiere, le radici della quercia davanti casa romperanno le mattonelle in terracotta del portico. Ci toccherà sostituirle, tra qualche anno. L'aria si riempirà di profumo di rose, il picchio rosso si costruirà una nuova casa, le civette sosteranno sul tetto, il martin pescatore sfiorerà l'acqua del fosso in una danza leggera. E cosí ci sarà. Ancora la Vita.
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